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Un uomo senza patria
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Ormai superata la boa degli ottant'anni, Kurt
Vonnegut potrebbe legittimamente pensare di essere al capolinea e di
trovare un accordo, soprattutto con se stesso, per la "comica
finale" della vita. Invece ne ha ancora per tutti anche se
paradossalmente fa di tutto per far uscire dalla sua penna caustica
più i motivi delle sue passioni che dei suoi risentimenti. Scrive
un'elegia, breve ed essenziale, del blues ("La cura più indicata per
l'epidemia mondiale di depressione è un dono che prende il nome di
blues"), mette in chiaro cosa significa essere un artista dei nostri
tempi ("L'arte non è un modo per guadagnarsi da vivere. Ma è un modo
molto umano per rendere la vita più sopportabile"), prova ancora una
volta a ricordare il palliativo della letteratura ("Volevo che tutto
sembrasse sensato, così che ognuno potesse essere felice, sì,
anziché angosciato. E ho inventato bugie che si incastrassero per
benino e ho reso un paradiso questo mondo meschino"), dettando e
trasgredendo i comandamenti a modo suo ("Ecco: ho appena usato un
punto e virgola, che in principio vi avevo detto di non usare mai.
L'ho fatto per chiarire un concetto importante, e cioè che le
regole, anche quelle buone, sono utili fino a un certo punto").
Tutto intervallato da frammenti di vita privata, slogan coloriti, le
solite tonnellate di ironia e una lucidità ancora perfettamente
intatta Un uomo senza patria non è il primo e si spera
naturalmente non sia l'ultimo capitolo autobiografico di Kurt
Vonnegut, anche se tutto sommato è
il più brillante. |
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