La lunga iniziazione di Maya comincia con un
viaggio dalla Francia all'Etiopia e continua con una complessa
formazione in cui deve scoprire il colore della pelle, la lingua,
l'identità, il mondo in cui è nata e quello in cui è destinata a
vivere. A prima vista sembrerebbe un ritorno a casa, alla propria
terra, alle radici africane e per certi versi è proprio così, ma
la scrittura di Abdourahman A. Waberi, come già avevamo visto in
Transit, ha un piglio illusionistico e, con quella leggerezza che
potrebbe essere tutta di Italo Calvino, ribalta in allegria la
realtà, tanto "nessuno ha una visione d'insieme, e non si può
nemmeno pretendere che ne abbiano una". Confondere le idee può
essere molto utile ed ecco allora che Maya non torna solo in
Etiopia, ma in uno degli Stati Uniti d'Africa, nazione
florida e moderna, ricca e solidale, una sorta di paradiso in
terra a dispetto dell'Europa e dell'America che versano nella
miseria, nella paura e nella violenza delle guerre civili. Il
gioco potrebbe sembrare persino banale, nel suo mettere in
discussione le certezze consolidate della storia e della cronaca,
ma ha il senso e la logica propria di una visione perché, come
scrive Abdourahman A. Waberi, "la frontiera non si attraversa, si
abita per un tempo brevissimo" ed è in quell'attimo che sta la
differenza tra l'esilio e la fortuna di un paese in cui vivere la
propria dignità.
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