"Tutti gli inizi sono poetici, il seguito già meno" scrive Abdourahman A.
Waberi al centro di questa stupenda polifonia della guerra e dell'esilio,
due temi che hanno sottolineato a lungo i secoli di vita dell'Africa, e
bisogna addentrarsi in Transit per comprendere fino in fondo la sua intuizione.
Il luogo d'elezione del romanzo è Gibuti, ma i protagonisti invisibili
(Bashir e Harbi) di Transit s'incontrano nella terra di nessuno di passaggio
all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi. Dall'incontro fortuito e del
tutto casuale (i due in comune hanno soltanto la vaga cognizione dei profughi)
si dipanano e si intrecciano le reciproche storie che affondando tanto nella
drammatica realtà dell'Africa in fuga quanto nelle radici della cultura orale
e nomade. Abdourahman A. Waberi realizza così un romanzo a più e più voci,
architettando strutture ardite ma anche estremamente fluide, grazie ad una
lingua e ad un ritmo tambureggiante ("Tutti quanti si stordiscono di dicerie,
dicono: sì sì ci vendicheremo questa volta qui, per non pensare ai loro guai.
Le nostre pance sprigionano un rumore d'acqua in piena, un rumore di torrente
che scorre sulle pietre. Come se divorassimo a quattro palmenti il mango amaro
che fa schifo persino agli insetti e alle formiche"). Una rivelazione che
illumina, da sola, la collana Griot, dedicata, appunto, alle realtà
narrative dell'Africa.
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