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Chávez Ravine
Ry Cooder | Nonesuch
Un affare da ventitre milioni di dollari. A tanto ammontava l'investimento per spostare lo stadio dei Dodgers da Brooklyn a Los Angeles. Una cifra che giustificava tutte le operazioni, molte delle quali ambigue e illegali, che portarono Chávez Ravine, uno degli ultimi quartieri rurali di Los Angeles a diventare prima una terra di nessuno e poi un territorio di facile conquista. Agli inizi degli anni Sessanta il fragile e variopinto equilibrio della comunità di Chávez Ravine non restava altro se non un monumentale stadio e una sterminata spianata di parcheggi. Cemento ovunque, a ricoprire intrecci di storie e di messaggi quotidiani, di canzoni e di legami, che Ry Cooder è andato a riscoprire scavando in profondità. Con un'attitudine da regista piuttosto che da musicologo o chitarrista: in Chávez Ravine l'organizzazione degli interpreti, dei personaggi, delle sequenze che hanno portato allo scempio di un quartiere in nome del progresso e del mercato, con il consueto contorno di speculazioni e violenze. Ry Cooder non ha riesumato il cadavere di un quartiere e di una comunità, ma ha cercato semplicemente di riunire i frammenti di un ricordo, ha cercato di ricostruire il mosaico di un mondo, con i suoi suoni, le canzoni, le voci e i rumori (persino le fotografie e i disegni che sono parte integrante del progetto di Chávez Ravine). Per questo Chávez Ravine somiglia moltissimo alla una colonna sonora originale di una storia che andrebbe raccontata più e più volte. Naturalmente con la minuziosa prospettiva di Ry Cooder che da uno dei mille episodi di cinica devastazione ha saputo trarre uno scampolo di bellezza e un tassello importante nella cultura della memoria.